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L’età dell’oro

L’Età dell’Oro è uno dei miti più antichi e persistenti nella storia dell’uomo. La leggenda racconta di un mondo in cui la terra produce spontaneamente i suoi frutti ed ognuno è libero di vivere senza preoccupazioni di sorta e, soprattutto, senza lavorare. Il Satya Yuga induista, l’Aurea Aetas classica o l’Eden biblico, basti in questa sede ricordare degli evidenti legami tra loro, tanto evidenti da spingere Dante ad accomunare il concetto classico a quello biblico all’interno della sua Commedia. L’individuo rimpiange l’idealizzata giovinezza come la società rimpiange un idealizzato stato di natura, in cui l’uomo può esprimersi libero dalle rousseauiane catene della società, e dal lavor ouna condizione solo di recente rivalutata appieno dal pensiero filosofico.

L’età antica tiene in grande considerazione l’importanza del lavoro agricolo e lo nobilita in varie sedi poetiche, passando dall’iniziatore del mito dell’Età dell’Oro Esiodo al miracoloso puer di Virgilio. Ma ritiene il lavoro per lo più una condanna per l’uomo, disprezzabile se  punta solo ad un arricchimento fine a se stesso.
Il lavoro manuale è prerogativa degli schiavi e degli umili, i ricchi, e dunque coloro che sono istruiti, coopereranno attraverso il comando ed un contributo intellettuale. Similmente l’Arcadia pensata da Sannazzaro si rifà ad un modello dell’età dell’oro evidentemente virgiliano, ma idealizza, in fin dei conti, un mondo che non conosce e lo fa con l’obiettivo di riaccostarsi alla “perfezione” della classicità più che di nobilitare il lavoro nei campi; la bellezza della vita a stretto contatto con la natura è un topos, non una realtà fattuale.
Solo in tempi decisamente più vicini, gradatamente, attraverso la mentalità calvinista ai primordi e quindi quella socialista e socialdemocratica, il lavoro ha assunto un ruolo chiave per la dignità dell’individuo, che contribuisce alla società attraverso la sua fatica e viene nobilitato per questo suo sforzo. La realizzazione e l’inserimento sociale di un uomo dipendono ancora oggi grandemente dalla mansione da lui svolta, e nessun intellettuale si sognerebbe di svilire i lavori più umili, ben conscio della loro valenza all’interno del tessuto sociale.

Oggi questo modello che ha servito l’Occidente per secoli sembra destinato a cambiare radicalmente. Il lavoro potrebbe diventare sempre più scarso, le macchine e le intelligenze artificiali sono in continua evoluzione e, pur essendo pressoché impossibilitate a sostituire completamente le mansioni della nostra specie, continueranno ad appropriarsi di un numero sempre maggiore di posizioni lavorative, non creando un sufficiente numero di nuovi posti di lavoro. Questo scenario non sembra coerente con una società costruita sul concetto che ognuno è (anche) quello che realizza. Siamo al paradosso di temere quello che gli antichi immaginavano come un’irrealizzabile utopia: l’assenza di lavoro oggi non è più solo un bene, ma è un pericolo per la tenuta della comunità ed accresce il rischio che la forbice sociale torni ad allargarsi ancora di più.
Filostrato fu un abile retore della scuola della seconda sofistica. In un suo breve trattatello, l’Eroico, il filosofo avanza una diversa interpretazione dell’età dell’Oro rispetto a quella proposta sino ad allora: una società basata sulla raccolta di vegetazione spontanea può comunque commerciare, seppure senza la corruzione del denaro. Un ragionamento simile potrebbe essere applicabile anche alla nostra realtà in questo momento di forte transizione in cui attraverso lo scambio non più di materia, sempre più automatizzato, ma di informazioni è possibile creare nuova ricchezza. 

Resta comunque interessante interrogarsi attraverso i what-if sulle reali possibilità che abbiamo di vedere un mondo in cui il lavoro manuale è pienamente meccanizzato, in primis chi dovrebbe decidere sull’utilizzo dei robot?
E ancora in che modo una simile società potrebbe premiare il merito, ammesso che ritenga sensato farlo?
Risulta evidente che una sfida del genere richiedere un cambio di approccio non solo verso noi stessi e le nostre ambizioni, ma anche verso il nostro sempre più contraddittorio sistema. Se le menti umane non sono state in grado di pensarne uno migliore, forse le loro figlie, ovvero le intelligenze artificiali, ci supereranno e ci ricondurranno verso l’Eden perduto. O, se va male, verso Terminator.

Davide Cuneo