Inchiesta

Italcheck per il Made in Italy

I prodotti italiani sono ricercati in tutto il mondo come sinonimo e simbolo di qualità. Quello che proviene dal Bel Paese è considerato buono di per sé, sia per la terra che lo produce, sia per il know how che di questo sta alle spalle, sia per il marchio “Italia”, che da solo porta dietro molti significati. Ma come si può essere sicuri che la contraffazione, in giro per il mondo, non finisca anche per colpire questo settore? È la domanda che si è posto Marco Masselli, uno dei creatori di Italcheck, quando ha deciso di fondare la start up che permette di verificare la reale provenienza dei prodotti e dei produttori. Un sistema web based, una smart utility che, una volta trovato il prodotto, permette, attraverso i codici Qr e Nfc, di verificare se si tratta veramente di un made in Italy. Come accade spesso nel mondo delle start up, l’idea arriva quando si incrocia la risposta a un bisogno insieme a un qualcosa di proprio e personale: «Mi occupavo già di export per  diverse aziende, e ho sempre viaggiato all’estero per per lavoro. In tutti i casi ho sempre notato come nei Paesi dove il Made in Italy è molto apprezzato, ci fosse sempre il problema di capire se un prodotto italiano è autentico o meno». Nello sviluppo del progetto c’è un fattore che da una grossa mano: «Conoscere le aziende, poter sentire le loro necessità, avere un rapporto che ti permette di trovare subito i clienti». Sostanzialmente: avere già una rete ferrata, cosa che Italchek sfrutta a pieno. E non caso i risultati arrivano, anche in fretta, tanto da assumere una dimensione anche istituzionale, dato che nel 2016 si arriva alla creazione di un marchio, il bollino Italcheck per garantire la provenienza dei prodotti, fatto attraverso un audit di controllo da parte di Agroqualità. «Il consumatore all’estero non è acculturato, ma è curioso, e vuole conoscere, cerca qualcuno che gli spieghi come agire».

Insomma, Italcheck in pochi anni ha raggiunto un piano di operatività di prim’ordine. Com’è stato possibile? «Bisogna avere una competenza sui vari settori e una visione a 360°» continua Marco Masselli, che spiega, tuttavia, come il fattore decisivo sia ancora un altro: «E’ la conoscenza del mondo in cui ti muovi, le collaborazioni e le partnership che sono vitali. Noi siamo riusciti ad averle sin da subito con aziende grandi, storiche. In poche parole i nostri clienti sono stati i nostri primi consulenti, e le due cose si sono nutrite a vicenda. Il prodotto dev’essere applicabile dalle aziende, e quelle a cui vendi sono il tuo primo socio. Certo, poi anche il consumatore finale è importante. Noi abbiamo creato subito un network, e abbiamo stretto legami non per cercare soldi, ma collaborazioni solide».

L’ambiente, quindi, ha giocato un ruolo importantissimo. E rimanendo in tema, al di là dell’ecosistema delle imprese, c’è quello istituzionale e del territorio. «In Piemonte e a Torino siamo già abbastanza fortunati, tra incubatori, Unione industriale, Camera di commercio e Università. Certo, ancora è difficile fare il secondo passo e diventare aziende, dopo essere start up. Poi la voglia di tutti è quella di fare da soli, ma credo che soprattutto le aziende debbano mettersi a lavorare insieme, per affrontare insieme le situazioni. L’ecosistema è molto buono, ma bisogna trovare il modo di farlo crescere e fare in modo che i progetti di service vadano verso il prodotto. Il Piemonte è una regione di produttori, e se il service non incontra la produzione è un grosso problema. Anzi, addirittura dire che le start up dovrebbero nascere proprio all’interno delle aziende, come negli Stati Uniti». Inoltre, «serve un supporto internazionale per permettere alle start up di andare all’estero. Qua in Italia, inoltre, i tempi sono lunghi e i progetti sono eterni, è troppo lungo il passo da quando viene fuori l’idea a quando si mette in pratica».

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