Editoriale

C’era una volta l’automotive

La città della FIAT. Chi avesse parlato in questi termini di Torino nel secolo scorso non sarebbe andato troppo lontano dalla realtà. L’azienda della famiglia Agnelli è stata al centro degli interessi economici della città (e a dirla tutta anche del resto del Belpaese) per larghissima parte del ‘900, contribuendo al suo sviluppo e alla sua crescita sia economica che demografica. Tutto era collegato alla FIAT: dalla costellazione di piccole imprese manifatturiere ad essa connesse alla Juventus, la squadra più tifata in Italia e uno dei principali motori di integrazione delle masse operaie provenienti dal sud alla ricerca di un lavoro e di una vita migliore.
Dopo le travagliate vicende della successione di Gianni Agnelli l’azienda è passata dalle mani della famiglia piemontese a quella newyorkese degli Elkann, decisamente meno attaccati al territorio rispetto ai loro predecessori. Molte cose infatti si potrebbero dire sull’ultimo “vero” Agnelli, ma nessuno avrebbe potuto negare che amasse profondamente la sua città, di cui era diventato una sorta di re dopo la cacciata dei Savoia.
Il suo ritiro dalla vita di capitano d’industria è coinciso anche con l’avvicendarsi di sfide sempre più complesse da gestire a livello internazionale per la FIAT, a partire da una concorrenza globale e globalizzata sempre più agguerrita, i giapponesi ieri, i cinesi oggi. Ed oggi di fatto la FIAT non esiste più. Esiste Stellantis, un grande multinazionale che ha fatto di necessità virtù ed ha scarificato le sue radici italiane, un’eredità complessa da gestire in un Paese economicamente stagnante da decenni, per diventare un’azienda sempre più globale. Acquisizioni e fusioni hanno reso il gruppo ancora più imponente e in grado di competere con rivali decisamente agguerriti, ma a farne le spese è stata più di tutti la città che a quest’azienda aveva dato i natali.
Per comprendere il declino della manifattura italiana basta pensare ad un dato: dal 2008 al 2024 le imprese manifatturiere in Italia si sono ridotte di 110mila unità, un numero impressionante. Questo dato a Torino si traduce nello spopolamento del centro di produzione di Mirafiori che oggi produce meno di 50mila vetture all’anno contro il milione e mezzo del suo massimo splendore che ha trascinato nel baratro molte altre PMI legate a Stellantis.
Ovviamente sarebbe ingenuo dare la colpa di questo calo ai soli Elkann, la crisi era infatti già iniziata alla corte di Gianni, ma risulta ormai evidente come le politiche industriali italiane degli ultimi decenni non abbiano portato i frutti sperati, visto il tunnel senza uscita in cui sono imbottigliati alcuni degli stabilimenti manifatturieri più importanti d’Italia. La produzione di auto a marchio Stellantis infatti aumenta in Francia, ma diminuisce in Italia e le condizioni sociali ed economiche dei due Paesi non sono certo dissimili.
Ma la Francia ha qualcosa che all’Italia sembra mancare ormai da decenni: un apparato statale forte in grado di “imbrigliare” i grandi fondi multinazionali come Exor e di “obbligarli” a perseguire una via che tenga sempre in massimo conto l’interesse nazionale della Francia.
Il rinnovamento del parco auto con lo sviluppo dell’elettrico sembrava potesse dare nuova linfa allo stabilimento di Mirafiori, ma il futuro di questo polo industriale non sembra ormai più essere nel segno dell’assemblaggio di automobili, quanto nella produzione e nel riciclo di batterie, un componente essenziale per le macchine elettriche, quella che dovrebbe essere la tecnologia del futuro. La speranza è ovviamente che possa essere davvero così, ma, dopo decenni di crisi, non è semplice restare ottimisti.

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