Di cosa parliamo quando parliamo di startup
La parola startup nel nostro immaginario è legata al mondo dell’innovazione, specialmente dell’innovazione tecnologica. Le startup sono tipicamente costituite da un giovane o da un piccolo gruppo di giovani che hanno avuto un’idea imprenditoriale, magari legata a qualche ricerca accademica ed eventualmente connessa ad un incubatore di qualche politecnico.
L’immaginazione ci porta immediatamente a Steve Jobs e al garage dei suoi genitori.
Le startup innovative sono preziose, perché all’innovazione è legata la crescita della produttività, la grande assente del nostro Paese.
E quindi abbiamo bisogno di un ecosistema in grado di sostenerne la crescita, fatto di incubatori, acceleratori e di finanza.
Quest’ultima, in particolare, assume grande importanza soprattutto nel caso di idee imprenditoriali che richiedano investimenti significativi, come tipicamente avviene nel caso dell’innovazione tecnologica, e comunque nella fase di trasformazione da startup a impresa, quando occorre raggiungere le economie di scala necessarie per stare sul mercato.
Vista dalla prospettiva dell’investitore, però, si tratta di un’attività ad altissimo rischio, dato l’alto tasso di mortalità “naturale” delle startup, che deve essere compensata da un adeguato rendimento.
Il debito non è una forma di finanza funzionale a questo mondo e pertanto le banche commerciali tradizionali non possono competere su questo circuito. La finanza delle startup è tipicamente costituita da fondi di investimento, che possono essere emanazione di banche o di altri enti pubblici e privati, in grado di “avventurare” i capitali in questo mondo rischioso: i fondi di venture capital, per l’appunto.
Il venture capital è rappresentato dal capitale di rischio (equity) con il quale gli investitori diventano (a vario titolo) soci della startup, nella prospettiva di perdere tutto quando l’iniziativa non va a buon fine o di guadagnare un multiplo dell’investimento effettuato in caso di successo, cedendo la propria quota rivalutata (in genere a un terzo investitore a carattere “industriale”) ed uscendo così dall’impresa (exit).
C’è una grande asimmetria informativa in tutto questo: i fondatori delle startup non hanno generalmente le competenze economiche necessarie per trasformare le loro idee in imprese in grado di andare sul mercato (per questo ci sono gli acceleratori a supportarli) e comunque nessuno è in grado di prevedere il successo di un’innovazione; gli investitori d’altro lato non hanno in genere le competenze necessarie per valutare gli aspetti tecnici dell’iniziativa.
La conseguenza è che si sviluppa un mondo di metriche (EBITDA, CAC, Burn Rate, Runway, GMV, … tutte rigorosamente in inglese!) che i founders illustrano ai fund managers e agli investors mediante pitch nell’ambito di conventions in cui vengono distribuiti prize e awards ai best performers, approfittando dei coffee break per fare networking e naturalmente rifocillandosi nei lunch a base di appetizers e finger food.
Esiste però anche un’altra accezione di startup, che rientra in quella più generale di impresa di nuova costituzione, e che rimanda ad un mondo di piccole iniziative individuali e familiari: tanto per fare degli esempi, commercio al minuto, servizi alla persona, ristorazione, botteghe artigianali, o anche singoli anelli nella catena di processi produttivi industriali difficilmente “scalabili”: potremmo anche definirle “Startup fo Life”.
L’Italia è il Paese dell’Unione Europea con il maggior numero di microimprese (si parla di 2,2 milioni) e di singoli imprenditori (600 mila). Molti di loro sono migranti.
Anche senza scomodare il luogo comune delle “piccole e medie imprese spina dorsale dell’economia”, che personalmente trovo fuorviante, si tratta di un mondo importante, oltre che naturalmente per le sue dimensioni, per almeno due ordini di ragioni:
1) in questi tempi in cui è diventato prioritario pensare alla sostenibilità ambientale e all’economia circolare, anche piccole iniziative come servizi di riparazione (di mezzi di trasporto, di elettrodomestici, di abbigliamento, ecc.) o commercio/riciclo dell’usato possono dare il loro contributo alla causa;
2) sono spesso l’unica leva di inclusione sociale per categorie economicamente fragili, come giovani, donne e migranti.
Tuttavia, l’accesso alla finanza per le microimprese “tradizionali” è ancora più difficile che per le startup innovative: da un lato, i rischi che si devono affrontare sono di natura in parte diversa, ma con un tasso di insuccesso comparabile; dall’altro, le microimprese “tradizionali” non offrono prospettive di rendimento in grado di attrarre i capital venture: scalabilità ed exit sono evidentemente fuori dalla loro portata.
Ma anche per le banche commerciali questi soggetti non sono appetibili. Come hanno ben spiegato Banjeree e Duflo, che hanno raccolto i risultati delle loro ricerche sul campo nel libro L’Economia dei Poveri (Poor Economics, 2011) e hanno ricevuto il premio Nobel per l’economia nel 2019, l’attività creditizia deve sostenere ingenti costi fissi e per essere profittevole deve raggiungere economie di scala che non sono compatibili con le dimensioni delle microimprese.
Perciò questo tipo di soggetti è classificato come “non bancabile” ed è facile preda dell’usura.
Le ricerche di Banjeree e Duflo riguardano i Paesi poveri, come dichiara il titolo del libro, ma molte considerazioni sono valide anche nei contesti marginali delle economie sviluppate.
E d’altra parte, restando ancora per un momento nel “Sud del Mondo”, e più precisamente in Bangladesh, già negli anni ’70 nacque l’idea di una nuova forma di finanza destinata specificamente alle piccole iniziative imprenditoriali in contesti di sottosviluppo: il microcredito.
Per inciso, l’alfiere del microcredito Muhammad Yunus, fondatore della Grameen Bank nel 1976 e insignito del Nobel per la pace nel 2006, il 6 agosto scorso è stato nominato Primo ministro ad interim del Bangladesh su proposta dei manifestanti al termine di settimane di violente proteste contro le politiche del governo in carica.
L’intuizione di Yunus fu quella di sviluppare un’attività creditizia che puntasse sui legami socio-culturali presenti nelle comunità locali (Grameen Bank significa letteralmente “banca del villaggio”).
Più esplicitamente, e in estrema sintesi, l’idea è quella di accantonare i metodi tradizionali di valutazione del credito basati su dati economico-finanziari o sulla storia creditizia dei soggetti, costosi da strutturare e comunque poco efficaci in questi contesti, e di valorizzare invece le garanzie “morali” implicite date dall’appartenenza ad una comunità locale.
Il microcredito ha conosciuto un’enorme diffusione, anche nel mondo sviluppato. In Italia è disciplinato da un’apposita legge del 2006.
L’autore del presente articolo è consigliere di amministrazione di Permicro, una società finanziaria specializzata nei prestiti a famiglie e microimprese che si ispira ai principi di Yunuf, di cui abbiamo già parlato in questo giornale durante le interviste a Mauro Manca e Filippo Chiesa.
Nonostante il diverso contesto, l’idea base del prestito basato sui legami di comunità resta valida: un recente studio effettuato dal Risk Management di Permicro ha evidenziato che la presenza di garanzie personali rilasciate da altri membri della comunità riduce in modo rilevante il rischio di insolvenza del debitore, tanto che costituisce il singolo fattore più significativo dei modelli di scoring dopo gli indicatori economico-finanziari. Notare che non si tratta di una ovvietà: la tutela legale fornita dalla garanzia è rappresentata dall’intervento del terzo garante nel caso di insolvenza del debitore; qui si sta dicendo invece che il solo fatto di avere un obbligo “morale” nei confronti di un membro della comunità, il garante, aumenta la propensione del debitore ad assolvere ai suoi obblighi finanziari nei confronti dell’istituto che gli ha erogato il prestito.
Nonostante ciò, la missione del microcredito, “rendere bancabili i non bancabili”, resta una mission impossible: i tassi di insolvenza sono comunque molto elevati (a differenza di quanto avviene nel “microcredito dei villaggi” di Yunuf) ed è necessario il sostegno pubblico o l’intervento di capitali privati non profit, come le fondazioni.
È giusto chiedersi se questo intervento è giustificato: posto che la funzione economica del sistema finanziario è quella di allocare il capitale in modo efficiente, selezionando le iniziative più produttive, il sostegno pubblico di soggetti ai margini dell’economia non costituisce uno spreco di denaro pubblico? O siamo in presenza di un caso di fallimento del mercato?
La risposta che ci arriva dalle stime di impatto sociale dell’attività del microcredito ci fa propendere per la seconda ipotesi: il Bilancio Sociale 2023 di Permicro ci racconta che, a fronte delle 780 imprese e 2.300 famiglie finanziate, sono oltre 600 i posti di lavo creati e 500 le famiglie diventate bancabili. La Società stima che i benefici per l’Amministrazione Pubblica, in termini di minore spesa e maggiore gettito fiscale, superino i 3 milioni di euro, molto più del sostegno ricevuto da Permicro da istituzioni pubbliche e fondazioni private nello stesso periodo.
Anche questa è innovazione. Innovazione sociale.
Silvio Cuneo